Aprendo la porta, a causa della scarsa luce che entra dai vecchi balconi, gli occhi ci mettono qualche istante ad incollare il ricordo del salone d’ingresso con la realtà. Faccio un passo, lento ma sicuro, come un esploratore che dopo anni di avventure ritorna nel luogo della sua prima scoperta.
Chiudo la porta alle mie spalle spingendo con il palmo della mano lo stipite dietro la schiena, con la forza giusta, senza farla sbattere, come si riesce a fare in quel luogo che chiami casa. Solo, quasi silenzio dentro, fuori la città quasi rumorosa: è mezzo giorno e io sono mezzo felice, mi siedo.
Mi lascio cadere sul divano che ricordavo più morbido, ma forse anche lui mi ricordava più leggero. Rimango seduto sulla punta del cuscino, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, con le mani sorreggo la testa, resto così. Osservo danzare la polvere sui listelli del parquet, sembra spinta dai raggi di luce che si fanno strada prepotentemente dagli infissi, fuori Roma brucia, l’estate appena iniziata scioglie già l’asfalto e scotta le spalle di turiste dalla testa rossa e dall’accento inglese. I turisti sono sporchi. Lo penso sempre e ho ragione. I turisti toccano tutto, si siedono ovunque, mangiano panini comprati in chioschi che mi fanno mal di stomaco solo a guardarli. I turisti puzzano, puzzano di metropolitana e di autobus, di aeroporti e voli in classe economica, di bad and breakfast che trovi su internet e di deodoranti spray. Odio i piedi neri dei turisti. Calzano infradito bianche sudice o sandali da frate comboniano che non aspettano altro di sfilarsi per mostrarti le piante nere di tutto ciò che può raccogliere l’asfalto.
Guardo le mie scarpe da ginnastica.
Rimango lì ancora per un po’, la giornata è lunga, sono tornato.